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lunedì 23 maggio 2011


Avevo una nonna Contessa, di nobile casata Veneziana, figlia di un procuratore. Io e mia madre conserviamo delle foto in bianco e nero in cui la ritraevano in tutta la sua classe. Vestiva abiti eleganti fatti su misura e lunghi guanti in seta che fasciavano le sue esili braccia. L’immagine la ritrae in un lussuoso palazzo tipico da dove s'intravede un lampadario di cristallo che enorme ed imponente scende dal soffitto. In un’altra è ritratta durante le vacanze al mare, con un casto costume ed il lunghi capelli neri, raccolti solo in parte. Sembra un’attrice d’epoca, di quelle che fanno sognare per grazia ed eleganza. Quando la ammiriamo immortalata nelle foto che gelosamente custodiamo, mia madre sorridendo, mi paragona a lei, dice che le assomiglio fisicamente.La nonna ha tramandato un’importante eredità, fatta di educazione e rispetto, delicatezza e umiltà. Sento sempre riecheggiare le parole di mia madre: “E’ importante tu sappia sedere a tavola con un signore ma è ancora più importante tu sappia seder a tavola con un povero facendolo sentire a suo agio.” Il senso che non conosce involucro societario, aspetto esteriore o sostanza materiale. Ricordo che mi è stato insegnato quanto poco rispetto ci sia nello spreco e quanto egoistico sia piangersi addosso senza chiedersi come si senta chi ci sta accanto e che quando ci si lamenta, lo si dovrebbe fare sussurrando, poiché non conosciamo mai a fondo la sofferenza altrui che potrebbe essere molto più profonda della nostra.

Avevo una nonna contadina che in terza elementare dovette abbandonare la scuola nonostante la passione per lo studio. Viveva di stenti in un’umile casetta nelle campagne Venete. Abitava con la madre e con il padre che, come spesso accadeva all’epoca, maltrattava le donne di casa, preferendo bivaccare con gli amici mentre la propria moglie si spezzava la schiena nei campi. Quando nacqui io, lei aveva solo quarantuno anni, ma nella mia infanzia ricordo carezze di mani rugose, segnate dai troppi panni lavati nell’acqua fredda del fiume. Ricordo i suoi racconti del dopoguerra e, quando facevo i capricci, mi diceva che quando era piccola lei, non poteva permettersi di uscire la domenica perché possedeva un solo abito ed era costretta a lavarlo per poterlo poi indossare il lunedì a lavoro.Mi ha insegnato il perdono, la semplicità nel donare amore senza attendere nulla in cambio, proprio come ha sempre fatto lei con tutti noi. Mi ha avvolto con le sue accoglienti braccia e ha saputo guardare oltre i nostri errori, in silenzio. Mi ha insegnato quanto buono è un panino con la marmellata e che non importava che marca avessero i miei vestiti, ero sempre una principessa…La morale di questa storia?Cultura ed intelligenza non sono due facce della stessa medaglia. La cultura è una bella valigia, di gran marca, che decidiamo di riempire di capi più o meno pregiati e più la riempiamo, più faremo bella figura nelle svariate occasioni della vita. L’intelligenza è una dote, che appartiene al ricco come al povero, al letterato o all’ignorante, al bello o al brutto. L’intelligente saprà essere sensibile, guardare lontano, non farà mai pesare la propria condizione a chi può meno ed ammirare chi ha di più.


Non serve un lessico forbito per far parlare il cuore.


Anna Biason

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